martedì 29 aprile 2008

"I demoni dell'estrema destra rialzano la testa"(indipendent).

Sono rimasto veramente sconvolto nel leggere i titoli dei giornali stranieri di oggi.Nessun giornale, sia esso di destra o di sinistra,riesce a spiegarsi perchè il centrosinistra abbia perso a Roma. E' fuori discussione il fatto che Roma sia cambiata radicalmente in questi 15 anni; tutti poi ricordano la gestione perfetta del Giubileo del 2000 e tutti ammettono che Roma cresce il triplo rispetto al resto d'Italia. A mio parere, ancora una volta si è perso per due motivi.

Il primo motivo è che la sinistra italiana non riesce a vendersi e ciò è lampante se facciamo un esempio. Molti analisti sostengono che la sconfitta di Roma sia dovuta all'emergenza sicurezza. Intanto non capisco i motivi di questa emergenza: dati alla mano, Roma è la capitale europea e forse anche mondiale più sicura. Ma noi italiani siamo fantastici ed il nostro grande difetto è quello di enfatizzare le sconfitte più che le vittorie, forse anche per colpa di un'informazione controllata (siamo tra gli ultimi paesi per libertà d'informazione) che favorisce questo. Se in un altro paese avviene uno stupro ma se ne sventano dieci, indubbiamente si porrà l'accento sui dieci casi e si discuterà sul come prevenire il caso singolo. Nel nostro paese avviene esattamente l'inverso. Se io dovessi dar retta ai giornali della destra, non mi passerebbe nemmeno per la testa di andare a Roma, dipinta come una città da far west. Ma se Roma è il far west allora che dire di New York o Londra: lì si spara davvero e si ammazza anche tanto.

Il secondo motivo della sconfitta sta senz'altro nel candidato ed in una certa spocchia. Abbiamo commesso a Roma lo stesso errore che la Sinistra l'Arcobaleno ha commesso su scala nazionale: pensare che c'è una certa percentuale di voti sicura e che le persone ci votano perchè in quella realtà è così, perchè quella realtà ci appartiene. A tal proposito qualcuno poi mi dovrebbe spiegare perchè a Roma siamo andati con la sinistra radicale, cioè quelle forze che da sempre si sono dimostrate latitanti sul tema della sicurezza, impedendoci perfino di approvare il decreto legge in materia di sicurezza. Il dato che emerge da queste elezioni è che la politica è sempre meno aritmetica e sempre più cuore ed impeto. Rutelli, poi, ha fatto tutta una campagna elettorale incentrata sul passato: io ho fatto, io ho detto, io mi sono attivato. Peccato che alla gente non interessa quello che hai fatto ma quello che farai ed è anche per questo che sarebbe stato più opportuno non proporre una minestra riscaldata ma qualcosa di veramente nuovo. Comunque grazie di cuore a Francesco per essersi messo a disposizione del partito e per aver lottato per il bene della città.

Qualche giorno fa Veltroni aveva detto che in caso di sconfitta a Roma sarebbe servita più grinta, non meno. Oggi già si parla di congressi, riflessioni,ecc. La verità è che il Partito Democratico è ancora qualcosa di molto aleatorio e ci vuole tempo affinchè possa raggiungere dei risultati. Non si tratta di fare congressi ma di rimboccarsi le maniche, specialmente da Roma in giù. I dati elettorali,infatti, ci dicono che il Pd guadagna al nord (abbiamo pure preso Vicenza!), tiene al centro ma perde clamorosamente al sud. Ormai non si può tornare indietro, non si possono più fare vecchie alleanze stantie. Jovanotti dice che "la vertigine non è paura di cadere ma voglia di volare"; tutti noi sappiamo che è ancora presto per volare ma diciamo ai dirigenti del Pd che c'è un unico uomo in grado di farci sperare di poter volare tra un giorno,un mese o un anno: Walter Veltroni! Io mi fido di Walter, e voi?

domenica 27 aprile 2008

Intervista a Roberto Ammatuna


È un Roberto Ammatuna che si confessa “a tutto campo”, alla prima intervista dopo la sua rielezione all’Ars, nelle file del partito Democratico. I segnali di “collaborazione” con il sindaco autonomista di Pozzallo, Sulsenti, ci sono tutti, a patto che ci sia un invito “ufficiale” da palazzo La Pira.

Come anche i “boatos” che lo vedrebbero gareggiare per la sua terza nomina a sindaco, fra quattro anni. Nel frattempo, però, lo stesso Ammatuna dovrà lavorare per portare sviluppo in una terra, quella iblea, che necessita urgentemente di “decollare”, senza aspettare ulteriori rimandi. La gente “sente” una certa disaffezione nei confronti della politica e solo una risposta esaustiva, sul campo, darà maggior credito all’azione politica dell’onorevole del centro-sinistra.

In che termini potrà concretizzarsi al Comune di Pozzallo la reciproca apertura di credito che vi siete scambiati con il Sindaco Peppe Sulsenti?

“Credo sia compito prioritario dei rappresentanti istituzionali, a qualsiasi livello operino, attivarsi sinergicamente per risolvere i problemi dei cittadini, senza preclusioni di appartenenza politica e nella chiarezza dei rispettivi ruoli. E’ sulla base di ciò che la collaborazione con il primo cittadino di Pozzallo potrà essere avviata. Così come ho fatto in passato, pur non avendo parlamentari della stessa città e aldilà degli schieramenti, attendo ancora un invito che naturalmente dovrà avere i crismi dell’ufficialità da parte del Sindaco. Io in passato ho avanzato richiesta, quando ricoprivo il ruolo di Sindaco, per interloquire con i parlamentari eletti in provincia di Ragusa, traendone un vantaggio indubbio per Pozzallo. Lo rifarei ancora, soprattutto nel caso in cui l’interlocutore fosse un parlamentare della mia città”.

Nei suoi comizi, in queste settimane, ha sempre detto che, da quando non è più Sindaco, Pozzallo sta attraversando un periodo poco felice. A cosa si riferisce in particolare?

“Faccio riferimento a tutto ciò che è sotto gli occhi di tutti: lo sviluppo turistico sembra essersi inceppato, l’arredo urbano pare abbandonato al proprio destino, opere pubbliche già finanziate che non partono, la crescita economica che subisce uno stallo. In aggiunta a ciò sembra riproporsi una situazione dell’ordine pubblico che desta qualche preoccupazione”.

In città, si vocifera che, fra quattro anni, sarà candidato alle comunali. E’ ancora troppo presto o magari un pensierino lo sta già facendo?

“Sono appena stato rieletto all’Assemblea Regionale Siciliana ed è un compito gravoso da svolgere. Comunque, come si afferma in una nota canzone popolare, quattro anni sono lunghi da passare e poi sono abituato a pensare che in politica non bisogna mai dire mai”.

Perché gli elettori della provincia di Ragusa continuano a ritenere più credibile la proposta del centrodestra?

“Credo che, ironia della sorte, i ceti popolari in provincia di Ragusa si sentano maggiormente rappresentati dal centrodestra, che vanta una presenza capillare nel territorio ed è a più diretto contatto con la gente e più consapevole dei problemi che la attanagliano”.

La classe dirigente del centrosinistra cosa ha da rimproverarsi?

“Un atteggiamento elitario, distante dalla quotidianità che vive il comune cittadino. E’ necessario un bagno di sano pragmatismo per ritornare con i piedi per terra ed affrontare con forza i problemi che assillano la gente”.

Intervista di Calogero Castaldo da corrierediragusa.it

sabato 26 aprile 2008

Intervista a Walter Veltroni (pubblicata sull' Unità)




Lettura dei giornali di buon mattino, interviste, manifestazione, telefonate. Insomma lavoro tanto, riposo poco. Siccome gli esami non finiscono mai e domani ci sono ballottaggi importanti, il 25 aprile Walter Veltroni lo passa così. Con qualche differenza da Berlusconi, che ci tiene a rimarcare: «In una data come questa, che per gli italiani significa il ritorno della libertà, il futuro premier non solo snobba la ricorrenza, come ha sempre fatto, ma non trova di meglio che incontrare Ciarrapico, uno che il fascismo non l’ha mai rinnegato. Francamente lo considero uno sfregio, spero che anche per molti elettori e alleati di Berlusconi questo sia il momento di cominciare a dire qualche parola».

Magari si illude. Però Veltroni, nonostante tutto, è pieno di energie e ha voglia di lanciare un messaggio, anche all’interno del partito: «Non si torna indietro. Strategia, scelte programmatiche e linguaggio sono giusti, però adesso dobbiamo farlo, il Pd. Bisogna valorizzare i giovani, stare dove sta la gente e fare una gigantesca battaglia culturale». Veltroni ironizza sulla «scoperta della Lega», sogna una televisione che rompa la cappa del pensiero unico che già si sta diffondendo nel paese, e avverte la Destra: «Deve scegliere che linguaggio usare. Se è quello di Fini, siamo sulla strada sbagliata».

Segretario, che Pd vede dopo queste elezioni?
«Inizio con qualche dato. Il primo è che abbiamo un partito riformista del 34%, che in Italia non c’è mai stato. Si è superato il muro dei 12 milioni di voti, con un incremento che è stato al Senato di 1 milione e 800mila voti, a fronte di un decremento del Pdl di 800mila».

La percentuale del Pdl è la somma di An e Fi del 2006, solo che hanno votato meno persone...
«Ma noi aumentiamo e loro diminuiscono. Abbiamo avuto un voto molto importante nelle principali città del nord, nelle grandi aree urbane, al nord e al centro. A Roma abbiamo avuto il 41% dei voti. Il Pd è diventato al nord il primo partito in moltissime città, e rimango sorpreso quando sento fare i raffronti col 2006».

Perché?
«Per il Pd il raffronto va fatto nel 2007, ossia qualche mese dopo l’inizio dell’esperienza di governo del centrosinistra. Purtroppo questa esperienza è iniziata con 100 persone nell’esecutivo, l’indulto, e una legge finanziaria pesante. È proseguita con una crisi di governo a metà, con una instabilità permanente. Sono andato a vedermi i dati delle provinciali del 2007, abbiamo incrementi che vanno dal 10 al 15%. Nel 2007 i sondaggi quotavano il Pd al 24%, noi abbiamo recuperato 10 punti percentuali e, cosa importante, l’abbiamo fatto in un clima politico molto negativo, segnato da una crisi di rapporto tra vecchio centrosinistra e società italiana e segnato da qualcosa che bisogna indagare a fondo e che riguarda non solo l’Italia ma tutta l’Europa. Ieri (giovedì, ndr) c’era qui Tony Blair e ci siamo ricordati di quando iniziammo l’esperienza del nuovo Labour e dell’Ulivo. In Europa i socialisti erano in quasi tutti i governi, adesso sono rimasti sette, dei quali due in grandi coalizioni, Germania e Austria. Nel nord Europa non ci sono più esecutivi socialdemocratici, in Olanda ci sono forze di destra che emergono, in Francia non si è più vinto dopo Mitterrand, l’unica eccezione è la Spagna, grazie a Zapatero. C’è in Europa una crisi sociale molto grave che in Italia si combina agli effetti devastanti prodotti da quella che chiamerei la mutazione dello spirito pubblico di questo paese, che dura da vent’anni. Pensiamo al problema della sicurezza, quella personale ma anche sociale. Quella attuale per vasti strati è una condizione segnata dall’insicurezza, compresa quella di chi vede trasformare il proprio contesto sociale urbano dall’arrivo dell’immigrato, dell’altro, che viene vissuto come pericolo. Su questo ha trovato forza la campagna della Lega. Tutta l’Europa vive lo stesso fenomeno, per l’Italia c’è una difficoltà in più, che non possiamo ignorare: dal ’45 il centrosinistra non ha mai vinto le elezioni».

Nel senso che non è mai stato maggioranza nel paese...
«Nella storia italiana non c’è mai stata una prevalenza numerica di un centrosinistra riformista, questo è il problema che noi abbiamo cominciato ad affrontare, dando all’Italia per la prima volta quel che non ha mai avuto, ossia un grande partito riformista. In realtà, nonostante la sconfitta nella sfida per il governo, da queste elezioni esce confermata l’ispirazione strategica del Pd».

Invece sembra che qualcuno inizi a metterla in discussione...
«Vediamo. Primo, l’andare da soli ha pagato. Se avessi dovuto ascoltare tutti gli iperprudenti che mi consigliavano di ripresentarmi con la vecchia coalizione, adesso noi saremmo un mucchietto di cenere. Basta vedere il dato della sinistra arcobaleno per capire quale rottura di relazione c’è tra il vecchio centrosinistra e il paese. E quando vedo qualcuno che trasforma le bandiere del Partito democratico in bandiere rosse penso che va nella direzione sbagliata. Non è quella la soluzione. L’ultima cosa da fare è pensare che il futuro sia il ritorno al passato. Invece il futuro è nel proseguire questa grande sfida. Il nostro non è un partito di sinistra camuffato, ma una grande realtà del centrosinistra che va valorizzata. La scelta di fondo è quella giusta. Secondo, anche le scelte programmatiche sono giuste. In 4 mesi abbiamo rivoluzionato il linguaggio del centrosinistra italiano, pensiamo ai temi delle infrastrutture, del fisco, della semplificazione burocratica, della sicurezza. L’ho chiamata la rivoluzione dolce, e per fortuna l’abbiamo fatta, altrimenti avremmo pagato un prezzo altissimo. Quando qualcuno dice che dobbiamo scegliere tra Colaninno e i lavoratori, dice la cosa più sbagliata del mondo. Quella scelta di vecchia identità non funzionerà mai. I Ds due anni fa al Senato avevano il 16 per cento. Vogliamo tornare lì? No, le scelte sono giuste, ma adesso dobbiamo fare il partito».

Ossia entrare in contatto con l’Italia profonda.
«Significa fare un partito moderno. I partiti moderni non sono né leggeri né pesanti, questa discussione è cominciata fuori da noi, e ci ha investito anche grazie a una certa fragilità culturale che ci accompagna. I partiti sono dove sta la gente, nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, su internet, nelle professioni. Serve, semplicemente, un moderno partito di massa».

Non mi dica il modello Berlusconi, o della Lega...
«Per carità. Adesso una delle grandi scoperte di opinionisti, televisioni e giornali, è il modello organizzativo della Lega. C’è da sorridere. È lo stesso di due anni fa, non è cambiato, solo che i voti gli sono arrivati per la rottura del rapporto tra centrosinistra e paese. La Lega è un fenomeno complesso ma non si può cambiare il giudizio a seconda di quanti voti prende».

Ma secondo lei che cos’è il Carroccio?
«È l’impasto di molte cose diverse. C’è la spinta a liberarsi di lacci e lacciuoli che è il tratto positivo, e poi ci sono gli elementi di cultura individualista, corporativa, particolarista che sono pericolosi e devono essere contrastati. Ricordo che noi al nord siamo andati bene perché abbiamo cominciato a parlare il linguaggio di chi vuole lavorare e produrre, liberandosi da tutto quello che impedisce di crescere. Io sono più preoccupato del voto del sud, perché il vero problema noi l’abbiamo avuto lì, dove il Pdl ha intercettato lo stesso tipo di pulsione che ha intercettato la Lega ma senza pagare il prezzo della sua presenza. La realtà è che la gente ragiona sulla base di un approccio poco politicista».

Però i giornali abbondano di rampogne e di suggerimenti nei suoi confronti. Ad esempio “il Riformista”...
«Liberiamoci dai condizionamenti dei giornali che vengono letti prevalentemente da quelli che fanno politica. Il Riformista, peraltro di proprietà di un parlamentare eletto dal Pdl, vende 2000 copie e fa la spiega a noi che abbiamo preso 12 milioni di voti. Mi verrebbe da dire: per prima cosa pensa a vendere di più tu... ».

Torniamo al partito. Questo voto favorisce la crescita di una nuova classe dirigente o tutto torna alle vecchie logiche dei partiti di origine?
«Io voglio un partito che stia dentro la società e che vada avanti nel rinnovamento. C’è una nuova generazione di dirigenti del Pd, persone che hanno 40 anni e che devono assumere responsabilità di primo livello. Penso al ruolo fondamentale che devono avere i segretari regionali in una struttura federale. Ci sono energie enormi, che non possono essere soffocate da un gruppo dirigente indisponibile a questa operazione di allargamento e rinnovamento. Radicamento nella società significa anche gruppi dirigenti selezionati sulla base di una relazione con la vita reale dei cittadini. Quindi meno gruppi di potere, meno presunzione, meno auto-referenzialità e più capacità di esprimere la ricchezza della vita. Un partito deve avere organismi dirigenti forti, autorevoli e rappresentativi. Dobbiamo essere in grado di approfondire l’analisi sulla società italiana, anche in relazione a quello che sta succedendo in Europa. Ci tengo a questo raffronto con la dimensione europea perché i problemi con cui facciamo i conti sono legati alle profonde mutazioni sociali di un continente che sta invecchiando. Un partito nuovo deve avere un sistema di studi, di fondazioni, come Italiani Europei, la Nes, Astrid, serve una rete di centri di ricerca che allarghi e arricchisca l’elaborazione del pensiero critico del Pd. Ci vuole una grande battaglia culturale».

La cosa più difficile, in Italia.
«Sono stufo di un certo atteggiamento remissivo nei confronti di uno spirito del tempo che sta giustiziando i valori e lo spirito pubblico di questo paese. Ho chiesto a molti colleghi stranieri cosa sarebbe successo se nel loro paese un candidato avesse eletto a eroe un mafioso. Mi hanno risposto dicendo che sarebbe una cosa incompatibile con qualsiasi carica pubblica. In Italia invece questo è possibile».

Anzi, fa aumentare i voti...
«In Italia si va affermando una autentica dilapidazione del valore della solidarietà e del rispetto degli individui. Noi abbiamo bisogno di una grande battaglia culturale in cui anche il mondo cattolico deve fare la sua parte: la volgarizzazione della società, la spietata individualizzazione, il genocidio di ogni idea di regola e di spirito pubblico non è da considerare meno delle grandi questioni etiche, perché ci possono essere grandi attenzioni al tema della vita, però poi quelli che vivono si trovano una società senza valori, disumanizzata, dove le regole sono scritte dai rapporti di forza individuali e di categoria. Con rischi per la stessa convivenza».

Bisogna avere strumenti potenti.
«Bisognerà cercare di entrare anche nel settore televisivo con strumenti nuovi, e nel mondo di internet. Faccio un esempio. Noi faremo il governo ombra che sarà una grande struttura di proposta e di critica, in rapporto coi gruppi parlamentari. La mia idea è che a fianco di ogni ministro lavorino i capigruppo delle commissioni parlamentari e questi parlamentari dovranno essere le forze migliori del Pd. Ma siccome prevedo che nei prossimi mesi la televisione pubblica e privata sarà sotto una cappa di uniformante pensiero unico, servirà dell’altro. Faccio una previsione: spariranno dai telegiornali tutte le notizie di cronaca nera, l’allarme sicurezza sparirà, come accadde dal 2001 al 2006 quando l’allarme cessò pur essendo aumentati i reati. Se ne è riparlato quando i reati sono diminuiti, anzi si è fatta campagna elettorale su quel tema con tutte le bocche da fuoco disponibili. Ecco perché credo che accanto al governo ombra servirà una struttura di informazione televisiva ombra che tutte le mattine possa raccontare tutto ciò che è stato censurato, tagliato, negato. È così che si fa in una democrazia. Si rispetta, si propone, però si controlla».

Chi saranno i capigruppo di Camera e Senato?
«La mia opinione è che nella scelta non ci può essere altro che la volontà dei gruppi parlamentari. Quello che decideranno per me va bene, lo dico sinceramente. Però non posso accettare che a una persona come Anna Finocchiaro, che ha fatto una battaglia di grande coraggio, non le si riconosca il merito e la riconoscenza per averla fatta. Se lei e Antonello Soro intendono essere candidati io sono perché i gruppi esprimano la loro opinione su questa possibilità di conferma. Questa è una strada, poi nel 2009 dopo le europee si può rivedere la scelta. Se invece c’è l’idea di andare a una soluzione diversa, si verifichi quali sono le possibilità. I nomi di cui si parla a me vanno tutti bene. L’importante è che a decidere siano i gruppi parlamentari nella loro piena autonomia. Ci sarà da fare per tutti in uno spirito unitario e di responsabilità collettiva. Ci sono i capigruppo, le cariche parlamentari, il governo ombra e un gruppo dirigente che si dedichi a radicare il partito nel nord e nel sud, quindi spazio per l’impegno pieno di tutte le risorse di cui il partito dispone».

Domani ci saranno i ballottaggi. Se a Roma Rutelli dovesse perdere tante questioni si ingarbuglieranno...
«Rutelli deve vincere, per Roma e per il paese. Il dato del Pd nella capitale è molto alto, ma è chiaro che votare 15 giorni dopo la vittoria di Berlusconi non è facile. Dipende da quanta gente si recherà alle urne».

I giornali della destra dicono che se perde la sua leadership risulterà indebolita...
«Sarebbe stato vero se fossi stato candidato sindaco. Ma diciamo le cose come stanno. C’era qualcuno che pensava di vincere le elezioni prima che iniziasse la campagna elettorale? Il clima è cambiato negli ultimi due mesi, grazie alla rimonta del Pd. Bisogna ripartire da qui, senza strutture leaderistiche, con tante personalità di generazioni diverse che lavorino insieme, quali che sia il risultato di Roma. Se dovessimo perdere, per risalire l’onda serve più determinazione, non meno».

A proposito di Roma. La campagna della Destra è stata particolarmente dura, Fini non ha lesinato gli insulti. Vede possibilità di dialogo con questa maggioranza?
«Il fatto che Fini abbia definito una salma Rutelli e che bisogna fargli una pernacchia quando parla, e pensare che può sedere sullo scranno su cui sono stati seduti Pertini, Iotti, Scalfaro, sono due cose incompatibili».

E quindi?
«La Destra deve decidere: se vuole usare un linguaggio da scontro frontale non può pensare di trovare un’opposizione che non reagisce. Se invece vuole avere un atteggiamento di dialogo, ci troverà fermi ma dialoganti».

Forse hanno capito che al paese piace il linguaggio dello scontro. Berlusconi ha detto che l’ha rimandata in Africa e che rimanderà Rutelli sul motorino.
«Non rispondo alle battute da bar. La realtà è che loro cavalcano un linguaggio e un clima che c’è nel paese. Una ragione in più per impostare anche una grande battaglia culturale, oltre che politica. Il Pd deve servire a questo. Perché anche dall’opposizione riuscirà a fare un grande servizio al paese contrastando le politiche del governo e preparandosi alle prossime sfide per la guida del Paese».

L'altra casta (parte prima)

Prima di iniziare a scrivere voglio chiarire che io credo fortemente nel ruolo del sindacato. Senza di esso non avremmo il diritto di voto e tanti altri diritti. Oggi vediamo molto spesso sindacalisti spaparanzati in tv che discutono di costi della politica. Troverete di seguito tutta una serie di motivi in ragione dei quali i sindacalisti farebbero meglio a fare prima un po' di autocritica. Parte dei dati e delle informazioni sono stati presi da vari siti internet e per motivi di tempo sarebbe impossibile citarli tutti.

I bilanci: Alla fine del 1998 vi fu un deputato di Forza Italia, ex magistrato del lavoro, che tentò di far approvare un provvedimento che obbligasse i sindacati a rendere pubblici i loro bilanci. I sindacati bollarono la legge come antisindacale e riuscirono a convincere anche i parlamentari della maggioranza (Governo Prodi) a bloccare la legge. Ancora oggi, pertanto, il sindacato non ha l’obbligo di rendere pubblico il suo bilancio.
Il giro d’affari dei sindacati si aggira attorno ai 3 mila e 500 miliardi di vecchie lire. Prima di vedere in che modo i sindacati ricavano queste cifre, penso sia opportuno mettere in luce una fortissima contraddizione: ai dipendenti delle organizzazioni sindacali non si applica l’art 18! Ma stavamo parlando di entrate dei sindacati…

Gli iscritti : Ciascun iscritto al sindacato versa ad esso in media, ogni anno, l’ 1 per cento della paga base; ai pensionati si applica un regime forfettario ed essi versano in media tra i 30 ed i 40 euro all’ anno. Secondo l’ inchiesta dell’ “Espresso” , la sola Cgil ha incassato 331 milioni di euro nel 2006. La cosa che ci fa sorridire è che il sindacato non si preoccupa neppure di riscuotere queste somme: le somme vengono trattenute direttamente dalle imprese o comunque dall’ Inps. Gli italiani approvarono nel 1995 il referendum col quale Pannella voleva abolire questo automatismo ma tale meccanismo continua oggi ad esistere grazie ad accordi conclusi tra aziende e sindacati nell’ambito dei contratti collettivi. Si è tentato almeno di fissare per legge una regola elementare: il lavoratore od il pensionato devono dare il loro assenso a questo meccanismo. I sindacati hanno scatenato una guerra e quindi non se ne è fatto nulla.

I Caf: I Centri di assistenza fiscale rappresentano per i sindacati un formidabile business. Per quanto riguarda le dichiarazioni dei redditi dei pensionati, i rimborsi vengono versati dall’ Inps direttamente ai Cas. Nel 2006 l’ Inps ha versato ai 74 Caf convenzionati circa 120 milioni di euro. Per quanto riguarda i lavoratori in attività, i Caf hanno incassato (sempre nel 2006) circa 16 milioni di euro. Un piatto ricco, visto che i Caf ricevono inoltre, come contribuzione volontaria, una media di 25 euro dalle tasche dei contribuenti aiutati nella compilazione del 730 (per un totale di circa 175 milioni di euro) ed un’altra cinquantina di milioni per il calcolo di Ise ed Isee.
Nel 2005, sotto l’incalzare della Corte di Giustizia europea, convinta che il monopolio dei Caf rappresentasse una violazione dei trattati comunitari, il governo Berlusconi aveva aperto le porte a commercialisti, consulenti del lavoro e ragionieri. Una manovra così timida che la Commissione europea ha inviato all’ Italia una seconda lettera di messa in mora. Sull’ argomento si tenne successivamente un incontro a Palazzo Chigi, ovviamente conclusosi con un nulla di fatto.

I patronati: I patronati sono strutture che sostanzialmente assistono i cittadini nelle pratiche previdenziali (ma anche, per esempio, per la cassa integrazione ed i sussidi di disoccupazione). Nel 2000 i radicali hanno lanciato l’ennesimo referendum abrogativo, ma si sono visti chiudere le porte in faccia dalla Consulta. Più di recente Forza Italia ha cercato, con un emendamento al decreto Bersani, di liberalizzare il settore. Se l’emendamento non fosse stato respinto, per i sindacati sarebbe stato un colpo mortale. I patronati, infatti, sono fondamentali per il reclutamento di nuovi iscritti tra i pensionati, che quando vanno a ritirare i moduli si vedono sottoporre la delega per le trattenute : “Con i patronati e gli altri servizi la Cgil nel 2005 ha raggranellato 450 mila nuove iscrizioni”, sostiene Cazzola.
Come se non bastasse, i patronati si dividono lo 0,226 del totale dei contributi sociali riscossi dagli enti previdenziali. A lungo questa cifra è stata calcolata solo sui contributi versati dei pensionati privati; dal 2000 in poi, per gentile concessione del Parlamento (con un voto a larghissima maggioranza) nel monte-contributi sono stati fatti confluire anche i lavoratori statali. La cifra è quindi cominciata a lievitare: 314 milioni nel 2004, 341 nel 2005, 349 nel 2006.
Secondo quanto risulta a “L’espresso”, i patronati della Cgil incassano in media 82 milioni e 250 mila euro, quelli della Cisl 66 milioni e 150 mila euro e quelli della Uil 26 milioni e 600 mila euro. Il resto della torta va ai sindacati minori.

Continua…

venerdì 25 aprile 2008

Viva la libertà!!!


Oggi voglio dire una cosa soltanto: non voglio sentir parlare di destra contro sinistra, giovani contro anziani, donne contro uomini, lavoratori contro imprenditori.

Oggi, per una volta soltanto, dobbiamo sentirci tutti italiani!!! Dobbiamo unirci per resistere a chi vorrebbe riscrivere i libri di storia ( Dell'Utri) e per lottare contro chi ( il sindaco di Alghero) vieta alla banda comunale di eseguire " Bella ciao".

Al signor Dell'Utri diciamo che i libri di storia li devono scrivere gli storici e non i politici, altrimenti finiamo come ai tempi di Mussolini, a meno che il suddetto non ci voglia dire che anche Mussolini è un eroe. Non ci stupiremmo, visto che ha osato definire in questo modo Vittorio Mangano (boss della mafia condannato a più ergastoli) !

Al primo cittadino di Alghero potremmo dire che se oggi ha la possibilità di essere sindaco di una splendida città italiana, eletto democraticamente, è proprio grazie a quei partigiani che lottarono contro il nazifascismo cantando proprio "Bella ciao". Essa è e deve essere patrimonio non di una parte politica ma dell' intero popolo italiano.

Ma oggi, come dicevo, non voglio seguire il classico schema sinistra contro destra. Vi giuro che sullo stesso tema citerei anche qualche brutta espressione di un esponente della mia area politica, se solo ne trovassi una!


giovedì 24 aprile 2008

Ed ecco invece chi ha dei buoni motivi per ringraziare...

L'unico rappresentante pozzallese all' Assemblea Regionale Siciliana è...



mercoledì 23 aprile 2008

Grazie...lo stesso!!!

Domenica 20 aprile l' Mpa pozzallese ha tenuto il suo comizio di ringraziamento. Possiamo presumere che tale comizio sia stato fortemente voluto dal deputato Riccardo Minardo (modicano), visto che l' Mpa pozzallese non ha proprio nulla da ringraziare. Il sindaco, i suoi assessori ed i suoi consiglieri sono riusciti a catalizzare 2056 voti, una bocciatura sonora. Sono riusciti a perdere 3500 voti in un anno e si sono qualificati come la più impopolare amministrazione che Pozzallo abbia mai avuto.
Il sindaco Sulsenti ha pronunciato un discorso che si inquadra perfettamente nella politica della carota e del bastone. Da una parte ha riconosciuto la vittoria di Ammatuna, mentre dall' altra lo ha accusato di essere troppo spesso in giro per la provincia e di occuparsi troppo poco dei problemi di Pozzallo. Questo ragionamento è frutto della più becera mentalità: possibile che ci sia ancora qualcuno che pensa che il deputato pozzallese debba occuparsi solo ed esclusivamente dei problemi di Pozzallo? Roberto Ammatuna ha il merito di essersi da sempre occupato dei problemi dell'intera provincia e lo dimostra il fatto che, nella manifestazione di apertura della campagna elettorale, siano intervenuti il sindaco di Vittoria, quello di Scicli, gli amici di Ispica, il segretario provinciale della Cisl. Bisogna smetterla con queste logiche localistiche. Dei problemi di Pozzallo se ne è occupato e pure tanto, visto che con i suoi voti ha quasi doppiato Sulsenti.
Sulsenti ha poi chiesto ad Ammatuna di passare all' Mpa poichè altrimenti le sue proposte, in quanto proposte di opposizione, saranno comunque bocciate. E' inutile commentare questa osservazione, anche un bambino di 4 anni capirebbe che si tratta di una logica stupida e nefasta.
Così come è stupido qualificarsi come l'unica persona che potrà accompagnare per mano il nostro deputato a Palermo per fare in modo che le sue proposte vengano ascoltate dall' amico Lombardo. A Sulsenti dico di ricordarsi che non è stato eletto e che a Palermo ci vanno i deputati regionali come Roberto, mentre a lui spetta il compito di elaborare quelle proposte che il nostro deputato potrà portare a Palermo e che Lombardo dovrebbe valutare nel merito, al di là delle amicizie. Ma non è finita qui.
L'onorevole Riccardo Minardo, intervenuto successivamente, ha dichiarato che Ammatuna dovrebbe starsene zitto. Il motivo? Quando Ammatuna era sindaco, fu Minardo ad attivarsi per le varie autorizzazioni per i lavori del porto. Sarà vero, sarà falso, Sarah Ferguson? In ogni caso, vero o falso che sia, è un ragionamento che non sta nè in cielo nè in terra. Il compito del politico è perseguire il bene comune, sic et simpliciter. Qualcuno invece usa un'altra espressione per indicare il perseguimento del bene comune: ti faccio un favore. Se proprio non possono fare a meno di pensare certe cose che almeno non ce le dicano. Se poi ce le dicono senza azzeccare neppure un congiuntivo il popolo ride. Io c'ero e vi posso assicurare che ha riso di brutto!

martedì 22 aprile 2008

Le previsioni oniriche dell' Mpa di Pozzallo



Che ne avessero azzeccata una!!! Sulsenti dato per eletto, Ammatina bollato come bollito (scusate il gioco di parole). Avranno mica chiamato i sondaggisti della Nexus?!


Riflessioni sul voto


Per adesso non si può fare. E' questo il dato che fondamentalmente emerge dalle elezioni politiche del 13 e 14 aprile. E' stata una campagna elettorale breve ed intensa. Walter Veltroni è riuscito a recuperare circa sedici punti in poco più di quattro mesi. Il Partito Democratico ha ovviamente fallito l'obiettivo di andare al governo ma non quello di essere la prima forza riformista del paese.
Bisogna però evitare di cadere nella sindrome degli sconfitti,cosa che noi faremmo se dicessimo che in fin dei conti Berlusconi è amato dal paese, è in sintonia con le sue ragioni e le interpreta come meglio si potrebbe. E questo non risulta, per esempio, dalle sempre citate ricerche dell' Istituto Cattaneo, che mostrano come il cavaliere sia si in testa alle classifiche di popolarità, ma più ancora in quelle di impopolarità. Quelli che non lo votano lo considerano per lo più un politico inaffidabile e dedito agli affari suoi; il guaio è che stavolta molti lo hanno votato semplicemente turandosi il naso.
La vera sorpresa di queste elezioni è stata la Lega Nord, partito che è riuscito a presentarsi come foriero di soluzioni a buon mercato. La Lega è e resta comunque un partito del tutto privo di democrazia interna, razzista ed antifemminista. Anche se ha vinto.
Lo choc elettorale è comprensibile ma adesso è il momento di mettere da parte la rabbia e ricavare qualche lezion utile dagli errori commessi, invece di continuare a scaricarli altrove. A cosa serve, per esempio, dare la colpa della propria sconfitta a un altro partito, ovvero al Pd di Veltroni, esercizio principale degli esponenti della Sinistra l' Arcobaleno? Ciò che non abbiamo ancora letto e sentito da nessuna parte è piuttosto un'analisi completa dell'occasione storica persa prima e durante il governo Prodi.
Interrogarsi sui circa quattro milioni di voti che mancano complessivamente al centrosinistra significa innanzitutto riflettere sul destino di un tesoro dilapidato. Dovremmo tutti rammentare infatti che dal 2001 in poi, nel quinquennio berlusconiano, i partiti dell' allora opposizione inanellarono una brillante serie di successi consecutivi sbaragliando l'allora Cdl in ogni elezione comunale,regionale od europea che fosse. Fu così che nella primavera del 2006 all' Unione appena costituita tutti i sondaggi attribuirono un vantaggio pressochè incolmabile sull'armata allo sbando del centrodestra. Tutti sappiamo perchè quella enorme distanza si ridusse nei famosi ventiquattromila voti. Berlusconi si accorse che la composita coalizione della sinistra stava già iniziando a mostrare le prime crepe, quelle stesse crepe che oggi hanno consegnato l'' Italia alla destra. Berlusconi scatenò l'inferno e recuperò punti su punti. Il Porcellum di Calderoli giocò incredibilmente a nostro favore e nella indimenticabile notte del 10 aprile 2006 Romano Prodi potè annunciare una vittoria risicatissima ma pur sempre vittoria in una piazza romana che già temeva il disastro.
A quel punto il rischio sventato in extremis avrebbe dovuto suggerire a tutti i partiti della sinistra una strategia d'emergenza. Trincerarsi, fare quadrato, prepararsi a resistere cinque anni e a qualunque costo. Fin dall'inizio era chiaro che un' anticipata fine del governo avrebbe trascinato nel baratro partiti e partitini. Da Mastella a Bertinotti ne avrebbero guadagnato tutti, a tutti sarebbe ragionevolmente convenuto concorrere ad aiutare Prodi, proteggendolo ed aiutandolo.
Il calvario cui è stato sottoposto Prodi dai suoi alleati veri e presunti resta, lo sappiamo, un capolavoro di autolesionismo e di stupidità politica. Ed ha ragione Veltroni quando definisce Prodi uomo di stato, "uno dei più grandi che la storia repubblicana abbia mai conosciuto". Prodi, uomo capace ed intelligente, al quale non finiremo mai di dire grazie. Logorato, però, ed alla fine abbattuto da una conflittualità permanente dentro una coalizione paralizzata dalla cultura dei no.Quel piccolo margine di maggioranza al Senato invece di essere difeso con le unghie e con i denti è stato continuamente giocato ai dadi per lucrarne, nel migliore dei casi, qualche straccio di visibilità sui giornali o in tv.
Le forze politiche che oggi compongono la Sinistra l' Arcobaleno dicono di aver fatto il possibile per tenere in piedi la baracca. Ci siamo però dimenticati di Rossi e Turigliatto? Dei ricatti sulla politica estera? Dei ministri di lotta in piazza a manifestare contro il governo di cui facevano parte? Se tutti i responsabili di un tanto insensato sperpero non rientrano in Parlamento chi lo ha deciso? Il perfido Veltroni o una massa di elettori furiosi dopo aver visto finire in fumo le proprie speranze? Via, siamo seri!
La destra ha vinto ma mica tanto. I suoi voti ( compreso Storace) sono 17 milioni e 800mila. Quelli del centrosinistra 15 milioni, di cui 12 milioni del solo Pd. Due milioni ne ha l' Udc. Ovvero: nel paese maggioranza ed opposizione sono praticamente pari. Le principali città italiane sono ancora governate dal Pd e dal centrosinistra. E così la maggior parte delle regioni.
I leghisti , sicuramente, hanno raccolto i frutti di un lavoro capillare sul territorio. Pd e Sinistra devono prenderne atto e tornare a parlare con la gente. Le cittadine linde e pulite piacciono anche a noi. Se poi però il sindaco col manganello non toglie le panchine per non farci sedere gli immigrati.
A Veltroni diciamo quindi di tenere la barra dritta. Con la sinistra, soprattutto con il popolo della sinistra, occorre ricostruire un rapporto perchè siamo convinti che ciò possa giovare al Pd ed allargare la base del suo consenso. Bene l'opposizione senza sconti in Parlamento ma occorre sferrare una grande offensiva sui valori democratici.
Quando Veltroni ha detto alle mafie non vogliamo i vostri voti, è stato il momento più bello della campagna elettorale. Lo hanno preso in parola. Ne valeva la pena. Ma adesso ricordiamolo a tutti!

lunedì 21 aprile 2008

L'italia che faremo tra cinque anni (Discorso di Veltroni a Spello)

Cominciare da qui, da questa piazza, da questo borgo, con alle spalle questo magnifico panorama italiano, è un modo per dire a cosa pensiamo: non al destino di questo o quel leader, non a questo o quel partito, ma al destino dell’Italia, al nostro Paese, alla sua struggente e meravigliosa bellezza e alla sua storia grande e tormentata, alle gravi difficoltà del suo presente e alle straordinarie potenzialità del suo futuro.

E’ un modo per metterci in sintonia con quelle che sono state chiamate le correnti profonde della storia. Perché tutti noi viviamo, giorno per giorno, sulle increspature superficiali, quelle sulle quali si scatenano le tempeste e poi si distendono le bonacce. Ma è solo se scendiamo più in profondità, che possiamo provare a capire dove il mare della storia ci sta portando.

Le correnti profonde della storia non sono fenomeni fisici, anonimi, che ci sovrastano e ci schiacciano. Sono vite concrete di donne e uomini in carne e ossa, sono i nostri padri e i nostri nonni, che attraverso di noi congiungono i loro giorni a quelli dei nostri figli e dei nostri nipoti. Sono la memoria che si fa speranza, il passato che si apre al futuro e attraversando il presente lo riempie di senso.

Sembra di vederla, da quassù, la storia straordinaria e dura, aspra e sofferta, del nostro popolo, del nostro Paese. Un popolo che per secoli ha lavorato la terra, l’ha come addomesticata, addolcita, umanizzata. Ed ha impreziosito le straordinarie bellezze naturali d’Italia – dalle coste del Mediterraneo, attraverso le colline e la grande pianura, fino alle Alpi – con un immenso tesoro di borghi e castelli, di templi e cattedrali, di ville e palazzi.

Nessun popolo della terra ha ereditato tanto dai suoi progenitori. E nessun popolo, meglio del nostro, è messo nelle condizioni di capire come lo sviluppo economico non solo non sia in contrasto, ma possa e debba sposarsi con la qualità della vita.

Troppo a lungo crescita economica e salvaguardia dell’ambiente, espansione urbanistica e tutela del patrimonio artistico, perfino lavoro e cultura, occupazione e scolarizzazione, sono stati pensati come valori contrapposti, come se l’uno fosse una minaccia per l’altro.

E invece, oggi abbiamo compreso che quei valori sono tali solo se promossi insieme. Lo sviluppo contro l’ambiente non è sviluppo. Ma anche viceversa: una difesa dell’ambiente che si riduca alla moltiplicazione di vincoli e veti contro la crescita è sterile e perdente. E invece, un nuovo ambientalismo, un ambientalismo positivo, un “ambientalismo del fare”, come lo abbiamo chiamato, inserito in una nuova cultura della sostenibilità e della qualità della vita, può diventare un formidabile volano di sviluppo. Prendiamo il sole: non è solo un’alternativa al petrolio per la salute della Terra, ma uno dei principali traini della crescita di domani.

Questa è la modernità che ci piace. Quella che unisce l’incremento del Pil alla qualità della vita e alla tutela della natura.

In un mondo che si va facendo sempre più piccolo e nel quale miliardi di donne e uomini, pur tra mille contraddizioni e tra enormi disuguaglianze, si vanno finalmente affacciando da protagonisti del nuovo contesto globale, l’Italia potrà restare protagonista solo se saprà e vorrà nutrire l’ambizione di puntare al primato nello sviluppo di qualità. Anche per questa via, la nostra memoria può trasformarsi nella nostra speranza.

La qualità è la nostra unicità. E’ la sola cosa che nessuno può clonare o delocalizzare. La qualità è l’Italia. E l’Italia è la qualità.

Non bisogna aver paura del nuovo. Il futuro è l'unico tempo in cui possiamo andare. Ma il nostro paese, i suoi meccanismi politici ed istituzionali, sembrano temere le cose nuove. Sembrano paralizzati dal demone del conservatorismo. Sembrano pensare che il mestiere di chi può decidere sia solo quello di rinviare; il mestiere di chi ha il potere sia solo quello di usarlo per mettere veti, paletti, bloccare sul nascere quella meraviglia che è il nuovo. Il nuovo che sorge dal talento, dalla scienza, dall’energia delle donne e degli uomini.

Il nostro Paese deve tornare ad avere voglia di futuro.

Una nuova generazione di italiani chiede una Italia più aperta e dinamica, più giovane e mobile.

L'Italia del nuovo millennio, non l'Italia della fine del secolo precedente.

L'Italia dell'ascolto e della ricerca, l'Italia del rigore e della responsabilità, l'Italia dei doveri e non solo dei diritti.

L'Italia della mobilità sociale e non dei corporativismi asfissianti.
L'Italia della ricerca, della scienza e della tecnologia e non degli steccati ideologici.
L’Italia della legalità e non della furbizia.
L'Italia che ritrova i valori, il senso della sua grandezza e l'orgoglio di sé.

Perché una comunità umana non vive senza i valori, senza le ragioni che illuminano il cammino collettivo e forniscono un senso alle cose.

Non possiamo essere una società che conosce “il prezzo, ma non il valore delle cose”. Una società arida, in cui rapporti umani sono puramente strumentali e si vive schiacciati dall’egoismo, dall’insicurezza e dalla solitudine.

Oggi il Paese, chi vive e parla con gli italiani lo sa, sembra cupo, impaurito. Sembra aver perso quella certezza che domani sarà meglio di oggi. Certezza che è l'energia vitale di una comunità. L’energia che si ritrova nei racconti di quella generazione che ha ricostruito l'Italia dopo la guerra.

I contadini speravano e sapevano che il loro figlio non aveva un destino obbligato, che un giorno volendo avrebbe potuto andare a cercar fortuna in città, e diventare un operaio, un impiegato, un insegnante.

Gli immigrati speravano e sapevano che loro o i loro figli un giorno sarebbero tornati nel loro paese sereni e rispettati per il lavoro svolto lontano da casa.

Operai ed artigiani di talento mettevano su laboratori e poi fabbriche, individuando originali tecniche e nuovi prodotti. E cambiavano così la loro condizione sociale.

Il Paese si rimboccava le maniche, faticava ma sorrideva al futuro che stava costruendo.

Il Paese correva, animato da fiducia e da uno spirito solidale, non bloccato dalle divisioni politiche e ideologiche, assai più drammatiche, allora, di quanto non siano oggi.

E' quello spirito che dobbiamo ritrovare.

L'orgoglio di essere italiani, la voglia di correre, di rischiare, di conquistare nuove frontiere e nuove possibilità.

Mai come oggi la scienza ci ha dato la possibilità di migliorare la nostra vita.

Ogni anno la sua durata media si allunga di qualche mese. Gli italiani che cercavano le foto della famiglia tra le macerie delle case bombardate vivevano in media poco più di sessant’anni. Oggi viviamo vent’anni di più, e i dati demografici dicono che nel 2017 gli ultraottantenni saranno quasi raddoppiati.

La nostra vita media è più lunga perché ci curiamo meglio, perché c'è meno povertà, perché nonostante ciò che si pensa l'acqua, l'aria e il cibo sono più controllati.

Viviamo più a lungo perché viviamo meglio.

So che dire questo contrasta un po’ col luogo comune per cui ieri è sempre meglio di oggi. Ma è proprio di questo che ci dobbiamo liberare.

Non restiamo con la testa rivolta all’indietro, ad un passato del quale dobbiamo riconoscere la grandezza e dal quale, come abbiamo detto, possiamo trovare stimoli. Ma invece viviamo pienamente il presente e volgiamo lo sguardo al futuro.

Oggi abbiamo immense possibilità: di sapere, di conoscere, di viaggiare e dialogare, di scoprire.

Eppure. Eppure sembriamo smarriti. Perché abbiamo perso il senso delle cose. Perché ci hanno detto per anni che gli altri sono solo concorrenti, persino nemici. Che il destino dell'altro non ci riguarda. E così abbiamo smarrito la voglia collettiva di cercare, di rischiare, di cambiare.

La società italiana nel tempo del suo possibile massimo dinamismo sembra ferma, inchiodata da spiriti di conservazione, da logiche di veto. Degli uni e delle altre una certa politica è la massima responsabile.

Una politica che nello stesso giorno in cui un uomo che fa onore all’Italia, Umberto Veronesi, indicava vie nuove per il futuro della lotta al cancro, dava un triste spettacolo di sé, con quegli schiamazzi e quegli sputi nell’Aula del Senato che hanno dato un’immagine dell’Italia che non meritiamo e non vogliamo più vedere. E state certi che quel senatore troverà ospitalità in qualche lista.

Quelle urla sono la più brutta espressione di una politica senza radici nella grande storia italiana, ripiegata su se stessa, priva della voglia di rischiare, di conoscere le sfide brucianti di un tempo nuovo. Dell’incapacità di fare ciò per cui il Presidente Napolitano non ha mai smesso di spendere energie e saggezza: mettere al primo posto il bene del Paese, al primo posto l’amore per le istituzioni. Quello che nelle ultime settimane avrebbe dovuto far scegliere non la propria presunta convenienza, ma la riscrittura delle nostre regole comuni: una legge elettorale per la stabilità e la riduzione della frammentazione del sistema politico, una sola Camera legislativa, la riduzione del numero dei Parlamentari e dei costi della politica.

Si è scelto altro. E noi siamo pronti.

E' all'Italia vera, che noi parliamo.

Verrà presto, tra solo sei giorni all’Assemblea Costituente del Partito democratico, il tempo di tornare a parlare il linguaggio asciutto e severo dei programmi. Il tempo di spiegare e chiarire le nostre proposte, e di ribadire ad esempio che oggi è possibile ridurre le tasse, perché la lotta all’evasione ha dato risultati. Io rimango della mia idea: pagare meno, pagare tutti. Oggi, grazie al lavoro del governo Prodi, possiamo fare quello che non è mai stato fatto. Quello, gli italiani lo sanno, che è stato ogni volta annunciato ai quattro venti, ma non realizzato.

Verrà il tempo per dire agli italiani ciò che è nostro dovere dire: questo è il nostro progetto per cambiare il Paese, queste sono le cose che faremo per fronteggiare i problemi e trovare soluzioni.

E lo potremo dire guardando negli occhi l’Italia, perché abbiamo deciso, unilateralmente, di correre liberi. Liberi, più che soli.

Liberi di poter finalmente non mediare parole, non attenuare cambiamenti possibili, non rinunciare a ciò che si crede giusto.

Guardiamo negli occhi l'Italia e le diciamo: comincia un tempo nuovo.

Il tempo del coraggio e del cambiamento. Il tempo della decisione e della responsabilità.

Gli occhi degli italiani hanno visto troppo odio e divisioni in questi anni.

Unire l'Italia, restituirle forza e orgoglio di sé.

Ritrovare quel desiderio del nuovo che è l'energia vitale di una comunità.

Chi, più di noi, più degli italiani, può unire passato e futuro?

L'Italia deve essere unita. L'odio e le divisioni di questi anni ci hanno fatto perdere occasioni importanti.

Non si è voluto capire ciò che è naturale ad esempio nelle grandi democrazie anglosassoni: che è necessario scrivere insieme le regole del gioco per poter poi competere per il governo nella distinzione di programmi e valori. Sempre nella consapevolezza che c’è una cosa più importante di ogni altra: l’interesse generale, il bene dell’Italia e degli italiani.

Ora bisogna rimettersi in cammino.

Perché non ci sono due Italie separate da muri invisibili. Né è giusto mettere sulle regioni, sulle città, sulle case e persino sulle teste degli italiani delle bandierine di colori diversi.

Gli italiani non “appartengono” a nessuno, se non a se stessi. Appartengono alla propria coscienza, alla propria mente, al proprio cuore. Ed è così che decideranno, il 13 aprile.

Di una cosa sono certo: gli italiani vogliono uscire dalla confusione, dall’instabilità e dall’immobilismo. Vogliono una stagione nuova.

L'Italia deve lasciare l'odio e scegliere la speranza.
L'Italia deve lasciare la paura e scegliere il nuovo.

La memoria impressa nel paesaggio italiano, lo splendido paesaggio che sta alle mie spalle, racconta la storia dell’Italia delle cento città: una storia di eroiche lotte per la libertà e, insieme, di crudeli guerre fratricide. Firenze contro Siena. E dentro Firenze, guelfi contro ghibellini. E guelfi neri contro guelfi bianchi, via via frazionando e frammentando.

Come se la libertà non potesse affermarsi se non contro l’unità. E come se l’unità dovesse fatalmente comportare il sacrificio della libertà. Una frattura mai del tutto ricomposta e che troppe volte è costata all’Italia il prezzo della subalternità ad altre potenze, a umilianti domini stranieri.

E invece è proprio quando si sono mossi spinti dal desiderio di unità, che gli italiani hanno fatto le cose più grandi.

E’ così che una terra divisa in piccoli regni, granducati e domini stranieri è diventata una nazione: grazie a chi immaginò ciò che non esisteva, a chi lottò per realizzarlo.

E’ così che l’Italia è uscita dal buio della dittatura, dalla vergogna delle leggi razziali, dall’abisso della guerra : grazie a donne e uomini che ebbero il coraggio e la moralità di mettere la libertà del loro Paese davanti a tutto, davanti alle loro stesse vite.

Uniti sotto il tricolore, sotto la bandiera italiana. Uniti nella Resistenza: quella attiva dei partigiani, quella silenziosa dei deportati, quella operosa dei tanti giusti che seppero aprire la porta a chi cercava aiuto.

L’altro giorno, la sera stessa in cui abbiamo presentato il nuovo sito internet del Partito democratico, è arrivata una mail. Poche righe, a raccontare un pezzetto della nostra storia. “Ricordo con grande nostalgia – dice la lettera – quando mio nonno mi portava nella stalla a vedere i buoi, io avevo quattro cinque anni. Mi raccontava tante storie, ma una la ricordo molto bene. E' quella di quando lui aveva nascosto nella stalla un gruppo di partigiani che erano sfuggiti ad un rastrellamento fascista e aveva messo a repentaglio la sua vita e quella di tutta la sua famiglia. Però l'aveva fatto e ancora ricordo che me lo diceva come se fosse la cosa più ovvia. Di fronte alla difesa della libertà e della propria patria non c'è esitazione, si fa cosa si deve fare e basta. Non l'ho mai ringraziato abbastanza per queste storie, certo che ancora oggi che ho 51 anni le ricordo volentieri, sono parte di me stesso me le porto dentro di me. Vorrei che il Partito Democratico avesse questi sapori veri, autentici”.

L’Italia è questo. L’Italia è andata avanti così. Così è diventata una grande democrazia, uno dei pilastri della nuova Europa unita, dell’utopia di Altiero Spinelli divenuta realtà.

L’Italia ha costruito il meglio, ha dato le prove più belle di sé, quando ognuno, da chi aveva le più grandi responsabilità alla persona più semplice, ha saputo curare più di ogni altra cosa l’interesse nazionale, ha saputo fare nel modo più naturale, “come fosse la cosa più ovvia”, ciò che sentiva giusto, ciò che serviva davvero al Paese.

E’ così, unita, che l’Italia è uscita dagli anni di piombo. Avevano il tricolore in mano, quei lavoratori che la mattina del 16 marzo del ’78 riempirono le piazze d’Italia contro gli assassini che aveva lasciato a terra cinque ragazzi delle forze dell’ordine e avevano portato via un uomo di stato e di dialogo come Aldo Moro. Con il senso di quella unità il terrorismo è stato sconfitto.

E’ di uno spirito così che il Paese ha bisogno. La priorità sono gli interessi nazionali, non quelli di parte.

Oggi come ieri. Oggi che, come un albero sotto il peso della neve, l’Italia appare piegata, oppressa, legata da nodi strutturali che nessuno sembra in grado di sciogliere.

Sono trascorsi ormai quasi vent’anni dal crollo del Muro di Berlino e dalla crisi definitiva della politica ideologica. L’Italia ha conosciuto l’alternanza al governo e la competizione bipolare tra centrodestra e centrosinistra. Ma non è ancora riuscita a liberarsi dai fantasmi di quella stagione.

Da quasi quindici anni, questi due schieramenti si sono alternati alla guida del Paese. Hanno fatto cose buone e meno buone. Ma nessuno dei due è mai riuscito a vincere le elezioni per due volte di seguito. Ogni volta la delusione per chi stava al governo ha spinto gli elettori a premiare l’opposizione.

Il bipolarismo che abbiamo conosciuto in questi anni si è dimostrato incapace di uscire dallo schema dello scontro ideologico. L’ideologia non c’era più, ma è come se la politica non fosse capace di rinunciare ai suoi cascami: la cultura del nemico, il dualismo manicheo, la demonizzazione dell’avversario, a volte un vero e proprio sentimento di odio, almeno predicato e ostentato, nei confronti della parte avversa.

“Non faremo prigionieri”, è la frase celebre di un ministro della Difesa: anno del Signore 1996. L’Italia non era in guerra con nessuno, per fortuna, quindi non c’erano nemici alle porte da minacciare. L’Italia stava entrando nel bipolarismo politico, mimando i toni e i linguaggi di una guerra civile. Due alleanze sempre più sterminate, accomunate più dalla eccitata volontà di battere l’avversario, che da un chiaro programma di interventi incisivi e netti sui mali strutturali del Paese.

Non sorprende che in questi anni nessuno di questi mali sia stato affrontato in modo risolutivo: non il debito, non lo squilibrio Nord-Sud, non i ritardi delle infrastrutture, non l’inefficienza della pubblica amministrazione.

Le cose buone che pure sono state fatte sono state fatte quasi sempre sull’onda dell’emergenza, a cominciare dalla spettacolare rimonta che all’Italia governata da Romano Prodi, nel tempo del primo Ulivo, nella stagione più feconda della recente storia italiana, consentì di centrare l’obiettivo dell’ingresso da subito nell’Euro.

Ma la politica in questi anni non è riuscita a imprimere forza, a portare avanti quelle grandi riforme, quelle liberalizzazioni e modernizzazioni di cui l’Italia ha bisogno.

Non sorprende allora che i cittadini stiano scoprendo una crescente insofferenza nei confronti di un sistema politico roboante e inconcludente, invadente e impotente, costoso e inefficiente.

Una politica che divide il Paese, invece di unirlo per far fronte ai problemi di tutti. Una politica che divide non solo tra destra e sinistra, ma anche tra Nord e Sud, tra italiani e immigrati, tra dipendenti e autonomi, tra padri e figli, tra laici e cattolici.

La stragrande maggioranza degli italiani è stanca di una politica come questa, che crea una conflittualità esasperata e la usa come alibi per non affrontare i veri problemi del Paese: come far ripartire la crescita economica, come rimettere in moto l’ascensore della mobilità sociale, come valorizzare talenti e meriti, allargando gli spazi di libertà delle persone, come ridare potere di decisione alla democrazia.

Gli italiani non ne possono più di piccoli interessi e di vedute ristrette. Riconoscono le soluzioni semplicistiche offerte a problemi complicati. Capiscono quando poche minoranze cercano di imporre la propria visione come fosse una verità indiscutibile, senza curarsi del fatto che così si alimentano solo divisioni, contrapposizioni, conflitti che non portano a nulla.

Gli uni contro gli altri armati. Sempre e comunque. Costi quel che costi.

Gli italiani vogliono altro. Meritano altro. Perché sono altro.

L’Italia non si deve rialzare.
L’Italia è in piedi. Sono in piedi gli italiani.
E’ la politica che si deve rialzare.

Gli italiani sono i milioni di donne e di uomini che ogni giorno faticano e lavorano, e che a volte per quel lavoro, con indosso una divisa o addirittura una tuta da operaio, rischiano la vita.

Gli italiani sono gli imprenditori che hanno le idee, che hanno il coraggio di spendersi in prima persona per vederle realizzate, che scelgono la strada della qualità e dell’innovazione, che mettono tutta la tenacia e tutta la capacità di lavorare per ore e ore ogni giorno nel progetto in cui credono.

Gli italiani sono i ragazzi che studiano, che investono su stessi, che non si perdono d’animo anche quando si accorgono che per salire devono spendere energie cento volte di più di altri, perché conta ancora troppo dove si nasce e perché l’ascensore sociale che l’intelligenza e la preparazione consentirebbe loro di prendere non funziona.

Gli italiani sono gli insegnanti che, nonostante stipendi e condizioni inadeguate, non rinunciano a vedere il loro mestiere come una missione, perché sanno che sono loro a poter fare la differenza nella vita di un bambino, di un ragazzo, soprattutto lì dove le situazioni sono più difficili, dove la vita è più dura.

Gli italiani sono le persone che si spendono volontariamente per chi è più debole e ha bisogno, che si prendono cura degli altri, che sanno che questo riempie la vita molto più che avere in tasca l’ultimo modello di telefonino o apparire per pochi minuti in qualche programma televisivo.

Gli italiani sono le persone che tengono duro in silenzio e con dignità, che magari fanno mille sacrifici per mantenere la loro famiglia, ma non rinunciano all’onestà, al rispetto delle leggi, all’accoglienza, alla solidarietà verso il proprio vicino così come verso chi arriva da un paese lontano.

Questa fatica, queste speranze, questa generosità non meritano di scomparire sotto la nuvola di parole e il rumore dello scontro politico.

Luoghi meravigliosi come questo, le nostre città, ogni nostra comunità, non meritano di essere divisi da steccati politici e poi definiti da etichette o bandierine colorate.

Per questo è nato il Partito Democratico. Per unire l’Italia.

Per provare a superare una volta per sempre la politica faziosa e settaria.

Per raccogliere le energie migliori del Paese attorno ad un programma di riforme che affrontino i mali strutturali che lo affliggono da troppo tempo.

Per dare alla politica un respiro nuovo.

La politica è impastata di tre ingredienti. C’è la lotta per il potere, per l’affermazione di sé o della propria parte contro le altre. Una lotta che usa la forza come l’astuzia, lo scontro in campo aperto come l’intrigo.

Forse è impossibile che la politica si liberi del tutto di questa dimensione. Ma guai se la politica si riduce solo a lotta per la conquista e la conservazione del potere. Guai se dimentica che il potere è un mezzo e non un fine. Così la politica finisce per perdere il suo senso, il suo scopo. Per diventare, talvolta, prepotente e corrotta. E finisce per annullare le due altre dimensioni, che sono invece la parte bella della politica, quella che può far innamorare, che può riempire di senso una vita intera.

E’ la politica intesa come lotta per grandi principi e grandi valori: la libertà, la giustizia, la pace. Ideali grandi, per i quali si può dare la propria vita, donandola ogni giorno nella fatica dell’impegno quotidiano, o addirittura accettando di perderla, pur di non tradire in nome della vita ciò che alla vita dà significato.

Ed è la politica come impegno concreto per risolvere i problemi quotidiani delle persone, per rendere più lieve la vecchiaia, la malattia, la solitudine, per incoraggiare la speranza di una giovane coppia che pensa di mettere al mondo un figlio ma prima deve risolvere la sua prima preoccupazione, quella della casa; per aumentare le opportunità per chi vuole mettere alla prova i propri talenti.

La politica è rapporto con la vita reale dei cittadini.

La politica è ben poco, se non capisce la preoccupazione di una madre e di un padre che si domandano che tipo di educazione e di ambiente civile riusciranno a garantire al proprio bambino.

Se non sente sua l’ansia di un anziano pensionato costretto a fare i salti mortali quando a fine a mese arriva la bolletta del riscaldamento.

Se non dà risposta alla domanda angosciata di un operaio che vuol sapere se sono vere le voci che annunciano la chiusura della sua fabbrica perché la produzione si trasferisce altrove, in un paese dove si possono pagare salari ancora più bassi e preoccuparsi ancora di meno delle condizioni di sicurezza.

Se non vede l’inquietudine di un imprenditore che per fare il proprio lavoro si trova a dover lottare contro mille difficoltà: le complessità burocratiche, il peso fiscale, l’assenza delle infrastrutture, con uno Stato che spesso sembra essergli nemico.

La politica è miope, non riesce a guardare lontano, se si preoccupa solo di chi ha già garanzie e trascura gli interrogativi e la vita di un giovane laureato che non sa che fare, se provare a vincere un dottorato di ricerca e continuare a studiare, a fare quel che gli piace e per cui si sente portato, oppure essere realista e cercarsi subito una qualsiasi occupazione, anche precaria, anche sottopagata. Costretto a scegliere una vita, quella della precarietà, che è un furto di futuro. Per un’intera generazione.

La politica è miope se non capisce che un bambino disabile, autistico o down, è la creatura al mondo che ha più bisogno di avere la società vicina, di sentire la comunità solidale. Se non capisce che c’è una spesa pubblica che non può mai essere tagliata: quella per loro.

Nessuna di queste persone si aspetta che un governo possa risolvere tutti i loro problemi. Ma ognuno di loro, giustamente, chiede ascolto, chiede attenzione, rispetto, e vuole avere la percezione concreta che qualcuno i suoi problemi li sta affrontando davvero.

Il Partito Democratico nasce per questo. Per far riamare la buona politica, quella che in uno straordinario giorno di ottobre tre milioni e mezzo di persone hanno animato con al loro passione, con al loro partecipazione.

Il Partito democratico nasce per dare alle donne e agli uomini e ancor più alle ragazze e ai ragazzi del nostro Paese la certezza che se vogliamo, insieme, noi possiamo cambiare la politica e cambiare l’Italia.

La scelta è tra passato e futuro.

Dobbiamo credere in ciò che l’Italia può essere.

Conosciamo le sfide che abbiamo di fronte. Ciò che ci ha impedito di vincerle, nella legislatura che si è appena traumaticamente conclusa, non è stata la mancanza di politiche valide, e nemmeno di donne e uomini capaci. E’ stata la divisione. Una politica divisa si è dimostrata troppo piccola di fronte alla grandezza delle sfide.

Per questo il Partito Democratico ha deciso di rompere il vecchio schema politico, quello delle grandi alleanze pensate solo per battere l’avversario, e di aprire la strada ad un bipolarismo nuovo, fondato sul primato dei programmi e sulla garanzia della loro attuazione.

Noi ci presentiamo agli italiani con una chiara proposta di governo: un programma, una leadership, una squadra coesa e affiatata.

Lo state vedendo. Dopo la nostra scelta tutto si è messo in movimento. Anche nell’altro campo. Ma guardate bene quel che succede nelle loro file: sono preoccupati di “come” vincere, non del “perché” vincere. Di come organizzarsi meglio, non di cosa offrire di nuovo all’Italia, di cosa fare di nuovo per gli italiani.

D’altra parte hanno già governato l’Italia per sette anni, e propongono solo di tornare a farlo, esattamente come prima.

Noi vogliamo voltare pagina.

Noi diciamo: non cambiate un governo, cambiate l’Italia.

Cominciamo. Cominciamo a farlo insieme. Trasformiamo l’Italia.

Possiamo essere la generazione di italiani alla quale domani i nostri figli e i nostri nipoti guarderanno con orgoglio dicendo: “hanno fatto ciò che dovevano, l’hanno fatto pensando a noi”.

Non toccherà certo solo a me. Non sarò, non sono solo io, a credere nel cambiamento, a lottare per realizzarlo, a voler fare le cose necessarie.

Tocca a noi. Tocca a milioni di italiani.

Dipende da noi, quello che possiamo fare insieme. Quello che insieme faremo.

Una Italia moderna, serena, veloce, giusta.

Si può fare.

Questi due mesi ci metteremo in viaggio, toccheremo tutte le 110 province italiane, tutta la bellezza e la meravigliosa diversità del Paese.

Questi due mesi saranno il modo più appassionante che abbiamo per far vivere le nostre speranze e dare corpo ai nostri sogni.

Non sono le speranze e i sogni di pochi.
Sono le speranze e i sogni di milioni di persone, che insieme cambieranno l’Italia.

La speranza, il sogno: parole che alcuni giudicano ingenue, astratte, poco adatte alla politica e alle sue esigenze di realismo.

Ma “speranza” vuol dire immaginare qualcosa che non c’è e impegnarsi per renderla possibile. Cosa di più bello nella vita?

La speranza, la fiducia nel futuro, è il motore del cambiamento che serve all’Italia.

E’ per questo che io mi candido. Non per ricoprire una carica.

E vi chiedo, nei prossimi mesi, di pensare non a quale partito, ma a quale Paese.

Facciamo un Paese grande e lieve.

Una Italia in cui non si muoia per lavorare. In cui studiare e intraprendere sia facile. In cui le donne e gli uomini ritrovino la voglia di viaggiare, insieme e sicuri, verso il futuro. In cui la politica riscopra il coraggio di rischiare il nuovo.

E forse, un giorno, ricorderemo che qui, oggi, in una bellissima domenica italiana, tutto è cominciato.